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mercoledì 11 aprile 2012

Genova... città multiculturale

Genova da sempre, in particolare nel centro storico, ha assorbito i flussi migratori più vari e ha rappresentato un punto di incontro tra culture diverse. Il termine stesso “Genova” lo rivela, esso ha un’origine incerta: da genua fondata da giano il dio bifronte, oppure janua che significa porta, oppure zena dal greco xenos (straniero) ad indicare una città di stranieri. Genova in effetti si può considerare come una porta spalancata tra due diverse concezioni della vita, quella più stabile e conservatrice legata alla terra, e quella più dinamica e sensibile al cambiamento, legata alle esperienze che vengono dal mare, dai mondi lontani che il mare unisce, dalle diverse genti straniere che il mare mette in comunicazione (Nathan Zazzu, 1983).
Il tessuto sociale genovese e, di riflesso, anche la scuola stanno assumendo una fisionomia marcatamente multietnica; pertanto diventa di fondamentale importanza saper integrare le varie culture, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze. Il numero di alunni stranieri in questa città è in continuo aumento e in continua evoluzione, poiché le richieste di frequenza giungono anche durante tutto il corso dell’anno. 

L’immigrazione sta diventando un fenomeno strutturale, destinato ad incidere sul tessuto sociale ed economico del nostro Paese in maniera continua e profonda. Il grande filosofo Kant (1971) definì così l’immigrazione: “Un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a fare parte delle società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi, isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi ad incontrarsi e a coesistere” (pag. 301).
Soprattutto in   passato, l’integrazione degli immigrati è stata considerata come un processo di assimilazione alla nuova cultura, ossia l’assunzione, da parte delle minoranze, dei valori, delle norme e dei modelli di comportamento del gruppo maggioritario, fino a perdere i propri marcatori etnici distintivi (Zanfrini, 2004). Solo attraverso tale omologazione, e la rinuncia alle proprie diversità razziali, religiose e linguistiche, gli immigrati potevano trasformarsi in membri effettivi della nuova società. Lo sforzo di annullare ogni diversità era però vano e inaccettabile per l’individuo moderno, geloso della sua differenza; da qui il fallimento di questo tipo di “integrazione”. L’ottica assimilazionistica ha come obiettivo: una società di maggiori dimensioni ma identica a se stessa prima dell’inizio del processo di assimilazione (Scidà, 2000).




Negli ultimi anni, invece, si è diffuso il rispetto per la differenza e il diritto al riconoscimento dell’identità culturale degli immigrati. L’integrazione culturale, che prevede il fiorire di diverse culture all’interno dello stato democratico, è considerata come accettazione della “diversità” e tutela dell’identità. Non si ha più come obiettivo l’uguaglianza, ma la parità: si tratta dunque di stabilire un dialogo tra persone avendo due identità ben distinte, persone che si riconoscono come tali (vale a dire come diverse nelle loro identità) e che sono fiere di esserlo (Samir, 1992). Sempre più vi sono incontri e relazioni interculturali, da cui nascono nuove idee e nuovi modi di vedere la realtà. Questo è il vero pluralismo culturale.
Il rischio che si corre è quello di raggiungere soltanto un’integrazione strutturale, in cui la tutela delle minoranze etniche conduca in realtà alla loro emarginazione e/o esclusione,  fallendo il suo obiettivo. Viene, così, ridotta la partecipazione degli individui solo a determinate sfere della società, di solito quelle lavorative, escludendo l’accesso alle altre aree. Altri problemi riguardano le crescenti spese sociali per far fronte ai nuovi bisogni, il diffondersi della conflittualità interetnica, la marginalità sociale ecc. Degrado, povertà e disoccupazione sono i tratti tipici dei ghetti in cui gli immigrati sono lasciati. Baumann (1998) definisce questi immigrati “localizzati per forza”.
Un ruolo importante è svolto dalle istituzioni, dai mass media, dalla normativa a riguardo e dalla scuola, che ha come mandato istituzionale l’educazione culturale e sociale dei futuri cittadini ed è quindi l’ambito sociale più adatto per costruire un nuovo tipo di cittadinanza (Zincone, 2001). Quest‘ultima agenzia educativa, deve innanzitutto favorire l’accoglienza e l’integrazione dei piccoli immigrati che si sentono, o sono fatti sentire “diversi”.

Tale integrazione, intesa come un processo lungo e articolato, deve favorire l’accoglienza dell’alunno straniero e il raggiungimento di alcune abilità (ad esempio quelle linguistiche). Altri obiettivi importanti sono: la creazione di relazioni tra l’alunno straniero, i compagni, gli adulti e la scuola (considerando l’incontro come il terreno privilegiato dell’intervento educativo); il rispetto della cultura d’origine e infine l’inserimento in attività extrascolastiche. Secondo Morin (2000, p. 106) i tratti essenziali dell’insegnante dovrebbero essere:

  • fornire una cultura che permetta di contestualizzare e globalizzare 
  • preparare le menti a rispondere alle sfide alla conoscenza umana
  •  preparare le menti ad affrontare l’incertezza 
  • educare alla comprensione umana fra vicini e lontani
  •  insegnare l’affiliazione
  •  insegnare la cittadinanza terrestre come comunità di destino dove tutti gli umani sono posti a confronto con gli stessi problemi.

Ci deve essere dialogo e relazione tra culture, affinché ognuno sia accettato: nella scuola il bambino deve essere accompagnato e inserito nella nuova società, attraverso lo scambio culturale e progetti didattici che gli offrano le stesse opportunità degli alunni autoctoni. Oltre all’analfabetismo culturale, come afferma Massa (1997), c’è un “analfabetismo sentimentale” che la scuola deve contrastare. 
                                                                                                          
Per quanto riguarda la prima fase d’inserimento, è importante che all’alunno straniero siano presentate le regole della scuola, sia quelle esplicite che quelle implicite, ed egli deve essere aiutato a svolgere le attività e le routine scolastiche. Le strade seguite dalle singole scuole sono molto diverse, dipendenti da variabili come: le risorse a disposizione del territorio, le intese con gli altri enti, l’aiuto di esperti specifici. Alcune scuole hanno cambiato molto la loro didattica e l’impianto organizzativo. Altre hanno unicamente delegato il “problema” ai mediatori culturali. In altri casi ancora, addirittura si è fatto finta che non ci fossero bambini stranieri. Responsabilità, delega, negazione o viceversa drammatizzazione del problema: sono alcune delle risposte tipiche nei confronti del problema “immigrati” (Favaro, 2003).   
Gli insegnanti molto spesso non hanno conoscenze e strumenti adeguati per favorire l’integrazione dei bambini stranieri. Essi da tempo chiedono che gli sia proposto un “modello” a cui fare riferimento per gli aspetti organizzativi, didattici e di valutazione. Il sostegno del mediatore interculturale, in molti casi, si è rivelato provvidenziale per sostenere l’insegnante nelle tematiche dell’intercultura e, nello stesso tempo, favorire l’intera classe. Essendo egli stesso immigrato può, meglio di qualsiasi altro, aiutare il bambino straniero a superare il suo spaesamento iniziale, inoltre può fornire informazioni alla famiglia immigrata circa l’organizzazione scolastica e ricevere notizie sulla frequenza precedente all’arrivo in Italia. 

Articolo di Serena Ricò
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© Dott.ssa Serena Ricò
psicologa e psicoterapeuta
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