Genova da
sempre, in particolare nel centro storico, ha assorbito i flussi migratori più
vari e ha rappresentato un punto di incontro tra culture diverse. Il termine
stesso “Genova” lo rivela, esso ha un’origine incerta: da genua fondata da
giano il dio bifronte, oppure janua che significa porta, oppure zena dal greco
xenos (straniero) ad indicare una città di stranieri. Genova in effetti si può
considerare come una porta spalancata tra due diverse concezioni della vita,
quella più stabile e conservatrice legata alla terra, e quella più dinamica e
sensibile al cambiamento, legata alle esperienze che vengono dal mare, dai
mondi lontani che il mare unisce, dalle diverse genti straniere che il mare
mette in comunicazione (Nathan Zazzu, 1983).
Il tessuto
sociale genovese e, di riflesso, anche la scuola stanno assumendo una
fisionomia marcatamente multietnica; pertanto diventa di fondamentale
importanza saper integrare le varie culture, nel rispetto e nella
valorizzazione delle differenze. Il numero di alunni stranieri in questa città
è in continuo aumento e in continua evoluzione, poiché le richieste di
frequenza giungono anche durante tutto il corso dell’anno.
L’immigrazione
sta diventando un fenomeno strutturale, destinato ad incidere sul tessuto
sociale ed economico del nostro Paese in maniera continua e profonda. Il grande
filosofo Kant (1971) definì così l’immigrazione: “Un diritto di visita,
spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a fare parte delle società in
virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale,
essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi, isolandosi all’infinito,
ma devono da ultimo rassegnarsi ad incontrarsi e a coesistere” (pag. 301).
Soprattutto
in passato, l’integrazione degli
immigrati è stata considerata come un processo di assimilazione alla nuova
cultura, ossia l’assunzione, da parte delle minoranze, dei valori, delle norme
e dei modelli di comportamento del gruppo maggioritario, fino a perdere i
propri marcatori etnici distintivi (Zanfrini, 2004). Solo attraverso tale
omologazione, e la rinuncia alle proprie diversità razziali, religiose e
linguistiche, gli immigrati potevano trasformarsi in membri effettivi della
nuova società. Lo sforzo di annullare ogni diversità era però vano e inaccettabile
per l’individuo moderno, geloso della sua differenza; da qui il fallimento di
questo tipo di “integrazione”. L’ottica assimilazionistica ha come obiettivo: una
società di maggiori dimensioni ma identica a se stessa prima dell’inizio del
processo di assimilazione (Scidà,
2000).
Negli
ultimi anni, invece, si è diffuso il rispetto per la differenza e il diritto al
riconoscimento dell’identità culturale degli immigrati. L’integrazione
culturale, che prevede il fiorire di diverse culture all’interno dello stato
democratico, è considerata come accettazione della “diversità” e tutela
dell’identità. Non si ha più come obiettivo l’uguaglianza, ma la parità: si
tratta dunque di stabilire un dialogo tra persone avendo due identità ben
distinte, persone che si riconoscono come tali (vale a dire come diverse nelle
loro identità) e che sono fiere di esserlo (Samir, 1992). Sempre più vi sono
incontri e relazioni interculturali, da cui nascono nuove idee e nuovi modi di
vedere la realtà. Questo è il vero pluralismo culturale.
Il rischio che
si corre è quello di raggiungere soltanto un’integrazione strutturale, in cui
la tutela delle minoranze etniche conduca in realtà alla loro emarginazione e/o
esclusione, fallendo il suo obiettivo.
Viene, così, ridotta la partecipazione degli individui solo a determinate sfere
della società, di solito quelle lavorative, escludendo l’accesso alle altre
aree. Altri problemi riguardano le crescenti spese sociali per far fronte ai
nuovi bisogni, il diffondersi della conflittualità interetnica, la marginalità
sociale ecc. Degrado, povertà e disoccupazione sono i tratti tipici dei ghetti
in cui gli immigrati sono lasciati. Baumann (1998) definisce questi immigrati
“localizzati per forza”.
Un ruolo
importante è svolto dalle istituzioni, dai mass media, dalla normativa a
riguardo e dalla scuola, che ha come mandato istituzionale l’educazione
culturale e sociale dei futuri cittadini ed è quindi l’ambito sociale più
adatto per costruire un nuovo tipo di cittadinanza (Zincone, 2001). Quest‘ultima
agenzia educativa, deve innanzitutto favorire l’accoglienza e l’integrazione
dei piccoli immigrati che si sentono, o sono fatti sentire “diversi”.
Tale
integrazione, intesa come un processo lungo e articolato, deve favorire
l’accoglienza dell’alunno straniero e il raggiungimento di alcune abilità (ad
esempio quelle linguistiche). Altri obiettivi importanti sono: la creazione di
relazioni tra l’alunno straniero, i compagni, gli adulti e la scuola
(considerando l’incontro come il terreno privilegiato dell’intervento
educativo); il rispetto della cultura d’origine e infine l’inserimento in
attività extrascolastiche. Secondo Morin (2000, p. 106) i tratti essenziali
dell’insegnante dovrebbero essere:
- fornire una cultura che permetta di contestualizzare e globalizzare
- preparare le menti a rispondere alle sfide alla conoscenza umana
- preparare le menti ad affrontare l’incertezza
- educare alla comprensione umana fra vicini e lontani
- insegnare l’affiliazione
- insegnare la cittadinanza terrestre come comunità di destino dove tutti gli umani sono posti a confronto con gli stessi problemi.
Ci deve essere
dialogo e relazione tra culture, affinché ognuno sia accettato: nella scuola il
bambino deve essere accompagnato e inserito nella nuova società, attraverso lo
scambio culturale e progetti didattici che gli offrano le stesse opportunità
degli alunni autoctoni. Oltre all’analfabetismo culturale, come afferma Massa
(1997), c’è un “analfabetismo sentimentale” che la scuola deve contrastare.
Per quanto
riguarda la prima fase d’inserimento, è importante che all’alunno straniero
siano presentate le regole della scuola, sia quelle esplicite che quelle
implicite, ed egli deve essere aiutato a svolgere le attività e le routine
scolastiche. Le strade seguite dalle singole scuole sono molto diverse,
dipendenti da variabili come: le risorse a disposizione del territorio, le
intese con gli altri enti, l’aiuto di esperti specifici. Alcune scuole hanno
cambiato molto la loro didattica e l’impianto organizzativo. Altre hanno
unicamente delegato il “problema” ai mediatori culturali. In altri casi ancora,
addirittura si è fatto finta che non ci fossero bambini stranieri. Responsabilità,
delega, negazione o viceversa drammatizzazione del problema: sono alcune delle
risposte tipiche nei confronti del problema “immigrati” (Favaro, 2003).
Gli insegnanti
molto spesso non hanno conoscenze e strumenti adeguati per favorire
l’integrazione dei bambini stranieri. Essi da tempo chiedono che gli sia
proposto un “modello” a cui fare riferimento per gli aspetti organizzativi,
didattici e di valutazione. Il sostegno del mediatore interculturale, in molti
casi, si è rivelato provvidenziale per sostenere l’insegnante nelle tematiche
dell’intercultura e, nello stesso tempo, favorire l’intera classe. Essendo egli
stesso immigrato può, meglio di qualsiasi altro, aiutare il bambino straniero a
superare il suo spaesamento iniziale, inoltre può fornire informazioni alla
famiglia immigrata circa l’organizzazione scolastica e ricevere notizie sulla
frequenza precedente all’arrivo in Italia.
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