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mercoledì 11 aprile 2012

Conflitto socio-epocale

 
Oggi viviamo in una società in crisi in cui le regole, le cause e i modi di agire sono messi in discussione.
“Per dirla in termini più chiari, viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi”. Con questa espressione il filosofo non si riferiva alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione […] il XX secolo ha segnato la fine dell’ideale positivista gettando gli uomini nell’incertezza. […] A partire dagli anni ’70, che segnano l’inizio della crisi, almeno due o tre generazioni hanno vissuto la frattura storica […] ovvero quello che abbiamo definito mutamento di segno del futuro, il passaggio dal
futuro-promessa al futuro-minaccia (Benasayag, Schmit 2004)”. Mentre la scienza proclama successi e profitti, paradossalmente gli adulti, ma soprattutto gli adolescenti, stanno male. Il disagio dei giovani di oggi va ricondotto, secondo Benasayag e Schmit, alla sua caratterizzazione storica, che mostra tratti specifici non confondibili con quello di altre epoche. Il tratto particolare della crisi antropologica che stiamo vivendo è dato dall’idea dell’impossibilità dell’azione di fronte alla complessità della realtà del mondo. Quindi l’idea ottimistica, data dal pensare possibile l’azione, viene paragonata ad una sciocchezza, chi pensa di poter
agire viene considerato fuori dalla realtà.

La crisi di ordine culturale va ad incidere sulle relazioni tra adulti e ragazzi facendo perdere senso ai principi che per molto tempo hanno consentito agli adulti di educare e proteggere i giovani. L’educazione ai giovani non è più un invito a desiderare il mondo. Oggi si tende ad educare in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, ad uscire indenni da pericoli incombenti. Ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”. Anche nel campo del sapere, la logica prevalente diventa quella dell’utilitarismo e dell’individualismo.  Ciò che è andato in crisi, con il cambiamento che ha investito le ultime generazioni, è il principio d’autorità. Il principio d’autorità, che fondava fino a pochi decenni fa le relazioni educative e di accudimento, ha rappresentato per lungo tempo una sorta di criterio guida, in base al quale era chiaro che un individuo rappresentava l’autorità e l’altro ubbidiva. Allo stesso tempo, però, entrambi ubbidivano ad un principio condiviso che predeterminava dall’esterno la relazione in vista di un obiettivo
comune: “io ti ubbidisco perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune, perché so che questa ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come io lo sarò domani, in una società dal futuro garantito” (Benasayag, Schmit 2004).

D’altro canto l’anteriorità – l’anzianità, il preesistere dell’adulto rispetto al giovane – rappresentava automaticamente una fonte di autorità, non perché l’adulto fosse dotato di particolari qualità personali, ma perché incarnava la possibilità di trasmissione della cultura. Questo principio di autorità-anteriorità non escludeva la novità e il cambiamento: dava, però, un ordine all’evoluzione attraverso la trasmissione e la responsabilità comune, assunte da tutti quale garanzia della sopravvivenza della comunità. Un primo corollario dell’attuale crisi dell’autorità è il prolungamento dell’adolescenza. In una società stabile la “crisi dell’adolescenza” finisce quando il giovane accetta la sua appartenenza alla società come una responsabilità. Il prolungamento dell’adolescenza può dunque essere letto come un sintomo della profonda instabilità della società attuale. Sembra che chi entra nella crisi adolescenziale non possa uscirne perché la crisi personale si scontra con quella della cultura, in quanto la società non è più in grado di offrire all’adolescente il contesto protettivo e strutturante che questa crisi esige.

Una seconda conseguenza è che oggi sembra non esistere più una differenza, un’asimmetria in grado di  determinare a priori i ruoli dei giovani e degli adulti e di dare al tempo stesso una cornice alla loro relazione. Oggi gli adulti (i genitori, gli insegnanti) non sembrano rappresentare più un simbolo sufficientemente forte per i giovani. La relazione giovani-adulti tende ad essere percepita come simmetrica. D’altro canto gli adulti stessi sono portatori di una critica all’autorità, poiché, al contrario dei loro predecessori, non sono più convinti di preparare per i giovani un futuro pieno di promesse.

Cosa comporta tale simmetria? Le relazioni genitoriali si trasformano in rapporti amicali, gli esempi educativi in dialettica confidenziale, le definizioni autorevoli in contrattazioni progettuali. Le simmetria tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti è disfunzionale in quanto nessuno rivendica un proprio ruolo responsabile.
Nel primo contesto, l’autorità necessaria viene sostituita da mistificanti consultazioni paritarie; nel secondo, la cultura come trasmissione di valori e di idee viene sostituita dalla trasmissione di saperi utili. In un gioco di seduzioni e ricatti, la conseguenza è comunque una deriva dei principi.

Quali sono i rischi – se ce sono - di questa nuova simmetria genitori-figli, adulti-ragazzi? Secondo i due autori, un primo rischio è quello di offuscare la percezione dei bisogni dei più giovani in funzione della loro età, cioè della loro realtà effettiva. Sempre più spesso vengono richieste consulenze psicologiche per bambini anche piccoli descritti come tirannici e indomabili proprio perché questi genitori tendono a trattare il bambino come un loro pari, che occorre persuadere, con il quale bisogna evitare di entrare in conflitto. Ma questa loro difficoltà ad assumere una posizione “contenitiva” può lasciare il bambino solo di fronte alle proprie pulsioni e all’ansia che ne deriva.

La crisi del principio di autorità, inoltre, non significa automaticamente una messa in discussione dell’autoritarismo, che al contrario può venire rafforzato. Un’altra caratteristica della società attuale è infatti quella di oscillare costantemente tra le due tentazioni della seduzione di tipo commerciale e della coercizione: cioè tra relazioni – in entrambi i casi – prioritariamente basate su rapporti di forza. La sola idea di dire “mi devi ascoltare e rispettare semplicemente perché io sono responsabile di questa relazione” sembra ormai inammissibile. In nome della presunta libertà individuale il figlio – o l’allievo – assumono il ruolo di “clienti” che accettano o rifiutano ciò che l’adulto “venditore” propone loro. Quando questa strategia fallisce, non rimane altra via che quella di ricorrere alla coercizione.

La perdita di ideali della nostra società e il diffondersi di sentimenti di insicurezza stanno comportando anche una inversione di tendenza nel modo di educare. Una serie di riflessi sociali di difesa stanno sottraendo spazio al pensiero e all’elaborazione concettuale. L’educazione dei giovani non è più un invito a desiderare il mondo. Oggi si tende ad educare in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni da pericoli incombenti. Ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”. Anche nel campo del sapere, la logica prevalente diventa quella dell’utilitarismo e dell’individualismo.

Il libro “Elogio del conflitto”(2008) di Benasayag e Del Rey fa un’ulteriore constatazione circa l’attuale società ovvero che nella nostra società i conflitti vengono rimossi. Indipendentemente dai tipi di conflitti sociali che esistono, molto spesso il potere non accetta l’altro punto di vista, non accetta il conflitto e si trincera dietro frasi del tipo “la gente non ha capito la riforma”, come se non si fosse stati abbastanza didattici nei confronti della popolazione. Siamo quindi di fronte ad un unico comportamentoche viene tollerato, e tutto ciò va avanti con il controllo e la sorveglianza. Viene negata la possibilità di un altro punto di vista valido nella società ed è quindi possibile solo una comunicazione distorta, non un punto di vista diverso.
Questo è un esempio che ci illumina sulla difficoltà di oggi a far coesistere pensieri contrari; sembra che ciò che diceva il filosofo Eraclito circa la dottrina dell’unità dei contrari non sia realizzabile. Eraclito pensava che i conflitti non possano essere eliminati, perché nel conflitto c’è qualcosa di necessario per la vita. Ogni vita infatti è costituita da alcuni conflitti che non devono essere confusi con degli scontri, perché uno scontro presuppone già una messa in atto del conflitto. Ma il conflitto non è lo scontro, è una realtà molto più profonda e indefinibile, nella quale ogni totalità è fatta di elementi in tensione gli uni con gli altri. Se si vogliono sopprimere le tensioni e i legami si sopprime la totalità e quindi la vita. Secondo Eraclito, infatti, niente esiste se allo stesso tempo non esiste anche il suo opposto. In questa dualità, questa guerra fra i contrari in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vedeva quello che lui definiva il logos, la legge universale della Natura.

Un’altra realtà che mostra questo andamento verso la rimozione del conflitto è la tendenza ad allontanare o eliminare le diversità culturali, come ad esempio per quanto riguarda la cultura dei non udenti, che non è riconosciuta dalla società. I non udenti non sono solo persone portatrici di handicap, ma sono persone che hanno anche costruito una cultura. In nome del bene viene permesso ai non udenti di sentire, quindi ci sono sempre meno sordi che nascono e restano tali. In sostanza c’è un unico modo di essere che viene accettato.
La rimozione dei conflitti porta ad una logica di separazione e in alcuni casi alla logica dello scontro. Si parte dalle grandi separazioni come Nord e Sud del mondo con la creazione di muri, con l’idealizzazione dell’immigrazione da un lato e la sua criminalizzazione dall’altro e si arriva alle piccole separazioni tra il sé ideale e quel che non è riconosciuto come sé, parti di sé che diventano non - sé. La logica della rimozione del conflitto in senso filosofico si riduce nella negazione dell’altro, non c’è più alterità sia in senso filosofico, sociale che psicologico. Secondo Benasayag, oggi assistiamo al tramonto dell’epoca dell’uomo, ovvero
l’epoca storica in cui si pensava che l’uomo avesse tutto sotto controllo e che lui fosse il soggetto principale della storia. Il futuro era considerato come progresso dell’umanità, che non avrebbe guardato più verso il passato abbandonando la tradizione. C’era una promessa: separarsi dalla parte oscura, ossia da tutto ciò che è miseria, ignoranza, malattia, irrazionale e tutto ciò che sfugge al controllo della ragione.

Si pensava che sarebbero scomparse la follia, le guerre, le ingiustizie, ma così non è stato in quanto il XX secolo è stato il più nero dell’umanità. Oggi siamo in una fase di crisi, in una fase che può essere considerata come la fine di un mondo, di quel mondo che aveva creduto nel progresso dell’uomo e nella sua sacralità.
L’umanismo, che si basava sulla separazione dell’uomo dalla natura e gli dava una dignità superiore agli altri esseri viventi, ha realizzato un progresso morale, scientifico e tecnico, ma questo ciclo e la figura che ne era alla base sono superati. Oggi l’uomo è diventato una risorsa a servizio dei vari sistemi, in particolar modo quello economico e anche la sanità, come l’ambito educativo, non sono più al servizio dell’uomo, ma
al servizio dell’efficienza, in senso produttivo, che è l’obiettivo principale. La logica dell’efficienza è diventata il nuovo principio della realtà . Dietro l’utilitarismo che avanza c’è l’uomo descritto un secolo fa da Robert Musil nel libro “L’uomo senza qualità”. Oggi l’essere umano è visto come una superficie liscia su cui vengono incollate competenze che vengono ritenute positive dal sistema, competenze che hanno la caratteristica della flessibilità per poter essere eliminate quando non sono più necessarie; ma l’uomo così diventa una macchina, che può essere modellata e che si trasforma da organismo ad un semplice aggregato. Questa è la visione dell’uomo che si va costruendo, perciò diventa essenziale lottare contro questo modello e proporne un altro.

Proprio assumendo i conflitti possiamo lottare contro l’utilitarismo che avanza. Prima di tutto perché il conflitto rimosso sfocia nella barbarie mentre il conflitto riconosciuto è un conflitto acuto che può  autoregolarsi. Secondariamente perché la vita è fatta di conflitti, riprendendo le parole di Eraclito possiamo dire che il conflitto è padre di tutto, è all’origine della vita stessa. Il conflitto non è semplicemente essere contro, il conflitto è la molteplicità dell’essere. Il conflitto è interno a noi stessi, è nel rapporto con l’altro, è in rapporto alla vita. Per aiutare le famiglie, le persone in generale, per comprendere anche la situazione
geopolitica che si sta modificando, è necessario, prendere in seria considerazione il tema del conflitto. Per far questo bisogna considerare l’esistenza dentro e fuori di noi della “molteplicità”. Solo sviluppando questa molteplicità forse si troveranno delle soluzioni per le varie situazioni.

Articolo di Serena Ricò
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© Dott.ssa Serena Ricò
psicologa e psicoterapeuta
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